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7 settembre 2010 2 07 /09 /settembre /2010 12:01

I dati della statistica fefac indicano in 147574 mila tons la produzione del 2009, nel 2010 la produzione scende dell'1% e si attesterà a 146.125 mila tons. questo significa >330.000 tons le quantità di agenti chimici utilizzati. Ma ora resto sulla produzione di alimenti. Il dato che risalta è il risultato della Spagna. Come materie prime, terreno disponibile e risorse agronomiche inferiore all'italia, la spagna ha saputo in 20 anni diventare la prima nazione della ue nella produzione di alimenti. Nei suini ha battuto sia l'olanda che la germania che la danimarca. Chapeau! Ed anche nei bovini è largamente in testa. Questo la dice lunga sulle motivazione che regnavano negli anni '70 dalle cattedre delle Università che, alla nostra richiesta di arrivare all'autoapprovvigionamento ci rispondevano che da noi non esistevano le premesse (materie prime, terreni, altro) per arrivarvi ed era una utopia il pensarlo. Meglio quindi favorire con politiche industriali che riguardassero l'auto, i frigoriferi e le lavatrici.

Della politica non mi curo adesso, è importante per me ricordare che la sconfitta è venuta dal nostro mondo. Quello che hanno fatto gli spagnoli lo potevamo fare altrettanto bene e forse prima noi italiani. Dato che opero in italia sono interessato al risultato italiano e quindi agli animali che in italia si allevano ed in italia si nutrono. Noi italiano restiamo alle nostre 13.800 mila tons praticamente senza alcuna modifica tra il 2009 e il 2010 (-0,1%).

Sconvolgimenti si registrano nei paesi nuovi entranti ma qui l'esperienza mi dice di andare cauto perchè sono meccanismi statistici che debbono essere oliati.

Resta un fatto relativo agli agenti chimici che è poi l'argomento che più mi interessa. Il settore degli alimenti per animali utilizza gli agenti chimici (e sono > 330.000 tons) e li continua a manipolare ed a muovere in quanto gli alimenti per animali sono sempre preparati in grandi lotti e consumati da ciascun animale in razioni quotidiane. Questa è la caratteristica del settore e marca, secondo il mio parere, la professionalità degli attori. Infatti è cosa molto ardua l'ottenere che in un lotto di 5 tons di alimento, che viene movimentato in cisterne da 25 tons, che arriva all'allevamento e stoccato in silos da 50 tons e che viene distribuito, ammettiamo, a polli e che un pollo mangi 100 grammi al giorno, ritrovare in quei 100 grammi tutti gli agenti chimici nelle proporzioni e nelle quantità previste per il benessere degli animali e per la sicurezza alimentare dell'uomo. E' un'arte. E non è da tutti.

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3 agosto 2010 2 03 /08 /agosto /2010 12:41

Questa la dovevo ancora vedere. Un macellaio, si un macellaio, che usa il made in italy dove di italy c'è solo lui. Ho avuto modo di sentirmi dire da un marchio primario di latte "a noi se il latte è superiore ai limiti per aflatossina non ci interessa, anzi lo preferiamo perchè all'allevatore non gli diamo proprio un bel niente come prezzo. Se non lo ritiriamo noi il suo latte superinquinato lui che se ne fa? Noi poi sappiamo come fare per ottenere un latte conforme". E mi racconta la rava e la fava. Ho avuto modo di sincerarmi su latte in polvere destinato ai vitelli e poi trasformato in latte per formaggio. Ho avuto modo di seguire alcuni esempi di trasformazione di salumi venduti con tanto di bandiera italiana e logo territoriale, il cui contenuto di carne di maiale allevato e cresciuto in italia non c'è alcuna traccia. Io opero grazie agli allevatori italiani e conosco tutte le difficoltà che inco9ntrano ogni giorno. Considero questi "italiani" come ultramiopi che tagliano il ramo su cui sono seduti. Ma non avevo mai avuto sentore del macellaio con cognome senese, che porta con se tutto il sapere ed il sapore toscano, tradizioni, usi, immaginario e che presenta carne rossa, morbida, bella da vedere. Il sapore poi è tutta un'altra cosa. E costui viaggia per televisioni e per megaristoranti facendo serate di pura macelleria, anzi norcineria. E la carne è spagnola. Senza nulla, ma proprio nulla togliere alla carne spagnola. Solo che siamo alle solite. Non c'è trasparenza e chiarezza nell'informazione. Costui dovrebbe dire che sa macellare, ma che la carne gli arriva belle e tagliata dalla spagna. territorio ue, ci mancherebbe. Ho fatto una piccola inchiesta tra gli avventori tutti straconvinti di gustarsi carne chianina, anche se dal sapore avrebbero potuto accorgersi, come me ne sono accorto io. Troppo rossa, ma coi i coloranti si può tutto. Troppo morbida ma si sa come certi allevatori ue tirino diritto. Non voglio assolutamente fare processi ma sulla dichiarazione mi fermo. E' ora di finirla di contrabbandare nel territorio italiano merce che di italiano non ha niente. Che differenza c'è tra il contrabbando cinese o francese con il "parmesa" e questo italianuncolo macelee che fa intendere una cosa quanto ne dà un'altra? Nessuna. Il cinese ed il francese debbono pur vivere. Costui è ancora più ignobile. Purtroppo è italiano. Purtroppo per noi che ci sorbiamo i 5.500 veterinari della asl, tutti i controlli sempre più ossessivi, e mai nessuno, dico nessuno, che controlli i camion di provenienza straniera. Straniero si anche se ue. Costui dica che si chiama Duccio, che i suoi nonni e tutti i suoi parenti sono senesi, ma dica anche che quelle bistecche gli vengono già tagliate da Cordoba, o Siviglia, o Tarragona. Non avrei niente ma proprio niente da dire, ma che faccia capire che si tratti di chianina quando non è vero, questo mi fa imbestialire.

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30 luglio 2010 5 30 /07 /luglio /2010 13:50

Agrimonde 1                                                                          Lug 2010

Nutrire il pianeta preservando gli ecosistemi.

 

La crescita economica dei Paesi in via di sviluppo ha trascinato, tra il 2000 e il 2050, quella globale. Oltre alla diffusione delle pratiche di intensificazione ecologica, si è migliorata, in queste economie, l’infrastruttura della gestione del territorio e delle filiere: trasporti, stoccaggi, capacità industriali e di trasformazione ed anche servizi sanitari, educativi e formativi. Gli investimenti necessari sono stati resi possibili attraverso il miglioramento del reddito nelle zone rurali, a sua volta reso possibile dallo sviluppo dell’impiego e da una migliore ripartizione del valore aggiunto lungo la filiera e dall’impiego mutuo dei mezzi sotto forma di diversi patti di aggregazione e cooperazione. Sono stati determinanti i trasferimenti pubblici a livello nazionale e l’aiuto internazionale, per iniziare e dare sicurezza agli investimenti nel settore. Questo aiuto massiccio è stata una delle risposte, alla fine della prima decade, alla moltiplicazione dei periodi di crisi alimentare che minacciavano la stabilità sociale e politica. Grazie alla riuscita delle opportunità di creazione di ricchezza nelle zone rurali, l’esodo rurale nelle economie in via di sviluppo si è notevolmente ridotto. Anche se è necessario considerare che è continuata l’urbanizzazione che ha continuato a distruggere le migliori terre agricole, malgrado lo sviluppo di filiere agricole e agroalimentari nelle zone periferiche urbane ed urbane, e gli sforzi relativi alla densità delle metropoli in paesi qualificati emergenti nel 2000 (cina, india, brasile in particolare).

Questi sforzi hanno avuto la forma di politiche volontaristiche di sistemazione del territorio per limitare l’artificialità delle terre e rispondere alla crisi energetica  della seconda decade. Nel 2050 gli scambi di beni alimentari sono regolati dall’Onu per la sicurezza alimentare (Unofs), il cui primo obiettivo è garantire la sicurezza alimentare. Perciò le regole applicate sono finalizzate ad evitare la distorsione della concorrenza e prevedono delle importanti eccezioni:

a – permettere agli agricoltori meno produttivi di sviluppare un mercato locale

b – considerare sempre i rischi per l’ambiente.

Questa organizzazione deve assicurare inoltre la gestione degli stock e degli scambi che protegga i paesi fortemente dipendenti dalle importazioni agricole contro eventuali minacce al loro approvvigionamento. Il tendenziale abbassamento dei prezzi reali agricoli, caratteristica del XX secolo, è terminato con la forte progressione demografica accompagnata dal decollo economico delle regioni del sud. Di fronte a questa nuova situazione la regolazione dei mercati ha evitato la volatilità dei prezzi, ancora molto forte nella prima decade, e responsabile delle crisi alimentari. Nel periodo 2000 – 2050 i sistemi di ricerca, formazione e sviluppo nei settori agronomici e ambientali hanno fatto emergere e permesso la diffusione di innovazioni al servizio dell’intensificazione ecologica. Le innovazioni sono state in parte specifiche per gli agricoltori locali ed hanno beneficiato altresì di opportunità tecnologiche più generali.

L’innovazione si è organizzata in modo interattivo e partecipativo per valorizzare la diversità dei know-how locali, il valore della varietà degli attori impiegati (agricoltori, altri utilizzatori di risorse naturali, ONG, trasformatori, altro). Questo sforzo di innovazione a scala locale, regionale e mondiale ha promosso la diversità permettendo la crescita di valore aggiunto ed una sua migliore redistribuzione. L’emergere di comunità con dei valori fondamentali e certi e di pratiche internazionalizzate nella ricerca e nella gestione degli ecosistemi è risultata determinante per l’ottenimento dei risultati. Sono stati posti dei limiti alla proprietà dei risultati delle ricerche proprio per preservare il carattere pubblico degli avanzamenti e della dinamica di accumulazione della conoscenza scientifica.

Le politiche di sviluppo, che hanno continuato le politiche di sviluppo regionale attuate alla fine del XX secolo dalla UE, hanno contribuito alla strutturazione di sistemi agricoli e alimentari localizzati e delle filiere, sotto forma di distretti, integrando la trasformazione, il percorso a valle, l’agro fornitura ed anche la ricerca, la formazione ed il consiglio.

Nei paesi più ricchi sono stati elargiti dei finanziamenti non più per l’aumento della produzione ma a favore di ecosistemi per promuovere la multifunzionalità dell’agricoltura e la remunerazione dei servizi ambientali. La rarefazione delle energie fossili e la necessità di ridurre l’emissione di gas a effetto serra hanno diminuito di molto la domanda, e a rinnovare l’offerta energetica attraverso investimenti massicci nella gestione dell’energia rinnovabile e nucleare. Le opportunità di produzione distribuite e decentralizzate dell’energia sono state la priorità così come la valorizzazione dei rifiuti e delle materie prime seconde. Il forte rincaro del costo dell’energia nella prima decade ha portato alla ricerca delle capacità autonome di sfruttamento in materia energetica. E’ in questa situazione, integrata il più possibile alla produzione, che si è sviluppata la produzione di agro carburanti nel mondo. L’accelerazione del cambiamento climatico nella prima decade ha determinato la spinta alla svolta tecnologica in agricoltura. Le tecnologie di intensificazione ecologica hanno permesso di minimizzare l’impatto ambientale delle pratiche agricole nei confronti dell’acqua, delle biodiversità e dei suoli e anche di ridurre le emissioni di gas a effetto serra e di rendere la produzione più forte e robusta nei confronti delle alee, in particolare usufruendo della reintroduzione di una maggiore biodiversità domestica. La domanda di produzione alimentare ed i prezzi elevati hanno tuttavia costituito una pressione per la conversione di spazi naturali e semi naturali come sono continuate, seppure in misura ridotta rispetto al 2000, le deforestazioni dell’Amazzonia e del Bacino del Congo. La politica e la pratica di preservare la biodiversità sono andate di pari passo con la capacità di innovare e sviluppare dei sistemi di produzione, compatibili con il mantenimento di una biodiversità importante e di infrastrutture ecologiche, in particolare per le terre coltivate provenienti da ex foreste. I sistemi agroforestali hanno avuto un ruolo importante per ottenere questo risultato, anche diverse ONG ambientali sottolineano nel 2050 che la perdita di biodiversità è stata importante e che questa perdita giustificherebbe di rendere sacri gli spazi delle biodiversità selvagge. Nel 2050 le diete alimentari delle differenti regioni del mondo hanno avuto la convergenza per quanto riguarda l’apporto calorico, attestandosi mediamente intorno a 3000 kcal/abitante/giorno. Delle specificità culturali hanno mantenuto una certa diversità nella ripartizione di differenti fonti di alimentazione. L’aumento del reddito non ha condotto ad una convergenza delle diete alimentari verso il modello occidentale. Se per alcune regioni, ad esempio l’Africa subsahariana, l’evoluzione del consumo alimentare è stato inizialmente spinto dallo sviluppo economico, i cambiamenti dei comportamenti hanno caratterizzato le diete alimentari. Così per esempio nella regione OCSE-1990, il consumo calorico medio è diminuito passando da 4000 a 3000 kcal/abitante/giorno. Questa rottura di tendenza ha potuto realizzarsi grazie alla diminuzione delle perdite e degli sprechi da parte del consumatore e del circuito della ristorazione, ed anche per una maggiore efficacia delle politiche nutrizionali. Il mantenimento di una certa diversità delle diete alimentari ha contribuito a risolvere i problemi di carenza in micronutrienti grazie all’apporto di frutta e legumi. La diminuzione della parte di prodotti grezzi in rapporto a prodotti trasformati, ancora molto forte nella prima decade, è stata rallentata: è il sintomo della diversificazione dei sistemi alimentari. Ciò è avvenuto anche per merito della regolamentazione che ha fortemente influito sull’informazione e la comunicazione nutrizionale dei marchi agroalimentari nei paesi ricchi, limitando finalmente il degrado della trasformazione dei prodotti, continuando a proporre prodotti innovativi in materia di praticità e varietà. Tra il 2000 e 2050 il grande modello agro industriale, inizialmente fortemente dominante, si è ibridato con forme locali di sistemi agricoli e alimentari, con circuiti corti, ma soprattutto sulla diversità proposta da piccole e medie imprese agricole e di trasformazione, in particolare nei paesi in via di sviluppo. La tendenza alla standardizzazione, l’internazionalizzazione e la concentrazione intorno ad un numero ridotto di marchi multinazionali si è ridotta. Questa riduzione è stata tra l’altro facilitata per le strategie nazionali e regionali attuate per assicurare la sicurezza alimentare ed anche per l’impatto importante della responsabilità sociale delle imprese sulla strategia delle grandi imprese. Il settore agro alimentare è stato particolarmente colpito per il comportamento dei consumatori dei paesi ricchi e ha fatto si che i consumatori stessi hanno avuto una maggiore consapevolezza dei rischi alimentari grazie alla informazione e alla disseminazione del concetto di alimentazione durevole e sostenibile a seguito della “paura della fame”. I consumatori hanno fatto pressione sui marchi agro alimentari attraverso le ONG e le associazioni dei consumatori, ed al loro ruolo importante nello sviluppo economico e alla riduzione della malnutrizione e la lotta contro l’obesità.

Libera interpretazione da Agricolture et alimentations du monde en 2050 – inra/cirad

 

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6 luglio 2010 2 06 /07 /luglio /2010 09:59

il fatto grave non è che la mozzarella possa avere il colore dei puffi. il fatto grave è che sia stata venduta come prodotto italiano, fabbricato non in italia, senza un solo grammo di latte italiano, fatto passare per prodotto "italiano" ed acquistato anche da noi "coglioni" italiani. Quando capiremo che questa è una guerra di liberazione dal colonialismo alimentare sarà sempre tardi. Questo vale per tutti quei salumi che vengono fabbricati (sino a quando non si sa, ma per poco, se continua questo andazzo) con etichette italiane (brianza, alpino, della marsica, della sila, felino) ma con carni di maiali francesi, olandesi, danesi, spagnoli. Ma che vuol dire? Niente ma ditelo, ditegli che le carni dei maiali non sono nostre.

Questo vale per tutte quelle tonnellate di "bresaola della valtellina" che reca in etichetta la placida facciona di una bruno alpina che pascola in un prato fiorito con dietro il profilo delle alpi. Invece è fabbricata con carne di bovino (zebu al 95%) brasilero, argentino, indiano, etiope. Perchè non dirlo?

Il punto cruciale è che l'industria di trasformazione si trincera dietro il bollino veterinario ma il controllo che si fa in italia lo paghiamo, lo subiamo, e ci crediamo. Su questo bloghetto si è cianciato dei 5.500 veterinari italinai contro i 400 della francia ed i 200 dell'Inghilterra. Ma perchè dobbiamo pagare una organizzazione di controllo del territorio quando il 50% del latte e della carne (escluso il pollame ed il congilio) viene da fuori? E non viene dal Swaziland ma dalle industriose Germania, Danimarca, Olanda, Francia e Spagna. Perchè loro producono molto più di noi e ci invadono? Perchè i 5.500 veterinari per primo compito non hanno quello di controllare sino all'utima confezione di ogni stramaledetto prodotto che vanta simula di essere italiano invece italiano non è? Le mozzarelle blu forse sono state fatte con latte non latte destinato ai vitelli e che invece viene destinato a produzioni di mozzarelli per quegli stupidi di italiani che le comprano anche.

Il colonialismo alimentare vale di più della bolletta energetica e di 3 belle manovre, ma noi stupidi continuiamo a non controllare ciò che viene da fuori (si da fuori anche se dalla UE perchè non dice chairamente la verità sull'etichetta) PRIMA  che venga posto su un espositore nel super. Ha dimenticavo anche i super sono francesi, inglesi, tedeschi. E' guerra e noi continuiamo a segare il ramo su cui siamo seduti.

 

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13 maggio 2010 4 13 /05 /maggio /2010 12:55

Se ne fa un gran parlare. Ritengo che sia l’unione di due parole più utilizzata negli ultimi tre anni. Anche l’Expo 2015 mi dicono avrà la sicurezza alimentare quale tema di fondo. Sono stato invitato ad un tavolo di confronto tra imprenditori di aziende legate alla filiera produttiva agro alimentare per favorire la conoscenza tra le aziende e per far emergere necessità e bisogni comuni di politica industriale.

Partecipo volentieri in quanto da almeno dieci anni cerco di formare delle aggregazioni per progetti di ricerca e sviluppo anche interni che necessariamente hanno bisogno di mettere in luce lo stato dell’arte e la valorizzazione della possibile ricaduta come filiera, intera o almeno pezzi della filiera stessa. Ed è veramente difficile.

Sono arrivato alla conclusione che stiamo vivendo un momento del tutto particolare, come azienda, come associazioni e come settore. Abbiamo sbandierato dovunque e comunque la sicurezza alimentare, ci facciamo scudo delle allerte da una parte e delle certificazioni dall’altra ma abbiamo tutti veramente una fifa del diavolo. Paura di che? Di aprire la porta, di dire dove siamo (ridimensionamento delle due parole) e di dove vogliamo arrivare (piccoli passi, percorso virtuoso). Questa situazione, che è momentanea (ma è quanto meno sul breve periodo), blocca davvero tutto, l’apertura, il chiarimento, la fiducia, la credibilità, la voglia di battersi per anche il piccolo passo. Meglio stare zitti: finchè dura fa verdura.

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11 maggio 2010 2 11 /05 /maggio /2010 14:44

Che io abbia un chiodo fisso con il numero di controllori che operano nel settore zootecnico è stranoto nel nostro piccolo mondo. Quando mi hanno citato che i veterinari in italia sono >5.500, mentre in Francia sono  < di 400 e in UK < 250, ho sentito dei brividi che non mi sono ancora passati. Cribbio!!! O da loro c'è un gran casino oppure da noi c'è un'infinità di intruppati. E no che non è così. Da loro il settore va come sempre. La Francia produce, produce ed esporta. Le allerte sono simili in Italia, in Francia, in Inghilterra. Il fatto è che da noi NON sono intruppati. Il numero dei fervorosi è in forte, anzi fortissimo aumento. Ma nel frattempo è interventuo il numero chiuso. Ogni sito operativo è stato riconosciuto e registrato. I dati sono su internet e cominciano ad arrivare anche quelli di ogni altro Paese della UE. Da noi i siti sono in leggero calo, la contrazione, la concentrazione: io continuo a sostenere: la guerra dei vicini che producono più di quanto consumano e riversano il loro surplus (rifiuto) vendendocelo. Il prezzo è una variabile indipendente in quanto per loro l'importante è che non diminuiscano di un grammo le loro produzioni ed i loro addetti. Il prezzo in Italia deve essere di poco ma sotto la soglia di spravvivenza, così che il mercato si restringa di quel 2%-.3%/anno, che non dà nell'occhio. Cribbio 2! Ecco perchè sti fervorosi si vedono più spesso: i siti diminuiscono, le mamme invecchiano, e quindi occorre controllare e ricontrollare i pochi rimasti. Ma invece di fare questo perchè non fate come quelli degli altri paesi? Loro controllano solamente il prodotto che entra da fuori, fisicamente o anche solo l'idea che qualcuno pensi di importarlo. Sto parlando per esperienza diretta. Quando vogliamo farci del male  siamo veramente i campioni del mondo.

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3 maggio 2010 1 03 /05 /maggio /2010 13:08

Approccio sicurezza

 

             I.      Vi sono obblighi di legge.

           II.      L’Expo 2015 ha come tema base la sicurezza alimentare.

         III.      Il settore agro zootecnico è grande consumatore di agenti chimici ed il settore zootecnico in particolare ha un quotidiano impiego di numerosi agenti chimici contemporaneamente.

         IV.      Gli operatori del settore zootecnico sono numerosi, in presenza di polvere di alimenti e di animali, con un grado di istruzione inferiore alla media e con presenza di stranieri.

           V.      Il mercato richiede la diminuzione di agenti chimici per la nutrizione degli animali e vi sono forti preoccupazioni per gli agenti terapeutici che possono indurre resistenze agli umani.

         VI.      Il settore zootecnico è un circuito chiuso in cui ogni operatore ha ricevuto un numero di riconoscimento e/o registrazione, ha dovuto presentare le procedure operative che addotta,  assume la responsabilità per le attività che svolge, deve sottoscrivere una polizza assicurativa per eventuali implicazioni negative economiche, deve predisporre un piano dettagliato e tracciabile (tracciabilità) alfine di poter permettere sempre, in caso di necessità (controllo, allarme) la rintracciabilità a ritroso alfine di individuare l’errore e la responsabilità.

       VII.      Ogni attore del settore zootecnico partecipa a dare senso alla sicurezza alimentare di tutto il sistema. La responsabilità finale spetta all’industria alimentare che immette nel mercato “il prodotto” ma contiene la responsabilità di ognuno degli attori.

     VIII.      Vi sono organi di vigilanza, in primis le ASL, che debbono verificare il grado di applicazione dei principi sopra riportati. I Veterinari impiegati nelle ASL sono > 5.500 in Italia, mentre in Francia sono < 500 e in UK < 300.

 

Nessuna meraviglia quindi che la sicurezza sia rientrata in ogni progetto di ricerca applicata in cui sono rientrato. Sia che si tratti di R&D che ambisce a dei finanziamenti, sia che sia attività di R&D interna, la sicurezza, per quanto mi riguarda, resta uno dei temi fondamentali di credibilità e di applicabilità. La gestione della sicurezza è un obbligo.  Inoltre è un aspetto che può differenziare le attività di ciascun sito operativo mediante l’innalzamento della qualità delle risorse.

 

Il collante della filiera è stato ed è ancora l’economicità. Il prezzo più basso in ogni transazione e/o accordo resta il collante.  Su questo niente da dire: è una decisione dei singoli attori, è una decisione attenta ai costi. Ogni attore, va da sé, è un imprenditore e quindi sa cogliere il rapporto prezzo/qualità di quanto acquista e vende. Questa frase mi suona un pò stonata. Se il prezzo resta il solo parametro di scelta inevitabilmente sto costruendo il secondo scenario (vinca il migliore, tabula rasa) e coloro che costruiscono il secondo scenario, sia che ne siano consapevoli o no (e questa per me è un aggravante) sono dei nemici in quanto io con tutte le mie forze voglio costruire il terzo scenario (il settore zootecnico legato, per interesse, con il territorio).

E arrivo alla sicurezza perché:

- perché dichiaro che ci credo

- perché su questa dichiarazione organizzo dei progetti interni ed esterni di R&D

- perché è un obbligo

- perché riposiziona positivamente le mie attività nel settore e il settore stesso

- perché NON incide economicamente.

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5 marzo 2010 5 05 /03 /marzo /2010 14:29

Sono 30.000 le tonnellate di agenti chimici che vengono acquistate, lavorate e consumate per le esigenze nutrizionali e terapeutiche degli animali allevati sul territorio italiano.

Ed occorre sempre tener presente che NON produciamo sul territorio il 50% delle carni suine ed il 50% del latte che consumiamo.

Relativamente alle 30.000 tonnellate è necessario notare:

-         vengono assemblate ed utilizzate quasi sempre insieme e contemporaneamente,

-          nei mangimi venduti e/o autoprodotti questi miscugli di agenti chimici vengono continuamente e variamente movimentati e manipolati,

-         Le deiezioni animali possono contenere agenti chimici non assimilati dall’organismo animale e contaminare l’ambiente e le acque.

Le attività del settore zootecnico rientrano nella Direttiva 98/24 “ogni attività lavorativa in cui sono utilizzati agenti chimici, o se ne prevede l’utilizzazione, in ogni tipo di procedimento, compresi la produzione, la manipolazione, l’immagazzinamento, e il trasporto o l’eliminazione ed il trattamento, o che risultino da tale attività lavorativa.”. E ancora abbiamo organismi che affermano “NO, questo non vale per il nostro settore”.

La sottile discussione “Ma quali agenti chimici?” è del tutto fuori luogo poiché la Direttiva all’art. 60 ter – b) 3) è chiara.”agenti chimici che, pur non essendo classificabili come pericolosi, in base ai punti 1) e 2) possono comportare un rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori a causa di loro proprietà chimico-fisiche, chimiche o tossicologiche e del modo in cui sono utilizzati o presenti sul luogo del lavoro, compresi gli agenti chimici cui è stato assegnato un valore limite di esposizione professionale.”. Inutile distinguere la Vitamina D, il Selenio, il Manganese, basta una semplice parola: TUTTI.

L’art. 60 quater – punto 3 riporta quello che può essere inteso come oneroso obbligo o buona opportunità:

Nel caso di attività lavorative che comportano l’esposizione a più agenti chimici i rischi sono valutati in base al rischio che comporta la combinazione di tutti i sudetti agenti chimici.”. Orpo! La faccenda si fa ingarbugliata dato che gli specialisti dichiarano, apertis verbis, “Nessuno conosce i rischi di una combinazione di più agenti chimici per una risorsa ad esposizione prolungata.”.

Nel settore zootecnico l’esposizione è giornaliera e la combinazione è relativa ad almeno 15 agenti chimici. Che fare?

Inutile dire, in quanto lo sapevamo già, che la stragrande maggioranza non ha fato ne fa niente, e niente hanno avuto da dire coloro a cui compete a vario titolo il controllo del territorio e/o l’emanazione di buone norme di produzione. Tutto va bene sino a quando non accade l’emergenza. Vediamo le possibili azioni:

a.     Non allevare animali ma importare il 100% del nostro fabbisogno,

b.     Non usare agenti chimici, nemmeno l’ombra,

c.      Esigere che gli agenti chimici utilizzati in zootecnia non abbiano, al’uscita dell’impianto di produzione di detti agenti,  particelle < 50 µ (per evitare qualsiasi rischio di inalazione) e particelle < 100 µ (per evitare che tali particelle vengano aspirate e costituire un pericolo per le risorse impiegate in attività manutentive – articolo 4 – punto 3).

d.     Verificare che le specifiche, del tutto NON onerose, del punto c) non vengano modificate da “stress” in ogni step della filiera.

Queste possono essere giudicate attività di prevenzione.

Certamente quella riportata al punto A) non è di nostro interesse poiché la nostra esistenza è legata esclusivamente alla presenza di animali in allevamento sul territorio italiano. Ma se palesemente questo obbligo (la valutazione del rischio e le misure preventive) viene bellamente disatteso, quale previsione fare sul reale interesse delle categorie di mantenere in attività l’allevamento italiano?

“Ma anche negli altri paesi che si fa? Dobbiamo farlo solo noi italiani?.”. Perché?

1 – perché è un obbligo

2 – perché stiamo importando e l’unica difesa, almeno dello status quo, è l’innalzamento delle barriere all’entrata,

3 – perché se attiviamo le misure preventive eseguiamo l’obbligo SENZA avere l’onere economico.

Cosa mi aspetto da questa nota? Niente salvo un voler testimoniare, ancora una volta, che stiamo, come settore, perdendo una opportunità. Sento tanto parlare di Progetti R&D, ma se su un tema importante ed obbligatorio come quello della sicurezza non abbiamo e continuiamo a non fare alcunché che credibilità possiamo avere come settore?

Molto meglio fare Progetti R&D per NON impiegare neanche l’ombra di un agente chimico, oppure di ricercare come alimentare la popolazione solo comprando il 100% delle proteine animali dall’estero.

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3 marzo 2010 3 03 /03 /marzo /2010 14:28

La difesa del Made in Italy                                  mar. ’10

 

Su Salumi & Consumi del feb-2010 leggo l’intervista al ministro Zaia, in visita ad una delle industrie di grande livello della trasformazione die prodotti suinicoli.

Viene posta la domanda: “A proposito di Cina, state lavorando sulla tutela dei nostri prodotti?”. Mi blocco perché la domanda è del tutto mal posta.

Cosa può mai fare un ministro? La tutela del prodotto alimentare Made in Italy, di questo si sta parlando, avviene SOLO, e sottolineo solo, se goni step della filiera è:

-         interessato, ed ha un ruolo riconosciuto e condiviso dagli altri,

-         - mette la propria eccellenza a disposizione ed a pagamento degli altri,

-         Gli altri lo pagano solo se porta la propria eccellenza.

In caso contrario sono gli stessi attori che miopi, si fanno del male, perché:

-         se la filiera non c’è è falso ed improprio parlare di Made in Italy,

-         se si mettono insieme delle NON eccellenze, il risultato sarà di molto breve durata e copiabilissimo, e non c’è ministro che tenga,

-         se si mette all’interno una NON eccellenza questa, prima o poi, sarà motivo per la caduta della costruzione.

Mi riferisco anche alla osservazione di Maurizio Gardini presidente Fedagri riportata da Corriere Economico del 8/2/2010: “Il problema centrale (per proteggere veramente il Made in Italy alimentare) è avere una legge che obblighi le azienda produttrici alla tracciabilità della filiera.”.

C’è già, ma quand’anche non ci fosse basta il comportamento intelligente e lungimirante degli attori: la bestemmia è se non c’è filiera che senso ha parlare di Made in Italy.

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3 marzo 2010 3 03 /03 /marzo /2010 09:25

Lombardia – Imprese alimentari            mar. ’10

 

Le imprese alimentari registrate in Lombardia nei periodi considerati hanno presentato un andamento in crescita:

 

Tabella 01

 

2000

2005

2008

a) Imprese alimentari

10.394

12.209

13.076

b) Tabelle imprese manifatturiere

151.031

148.196

141.722

a) / b)*100

6.88%

8.23%

9.2%

 

Le tipologie giuridiche nel 2008 erano:

Soc. di capitali

13.68%

Soc. di persone

35.50%

Soc. individuali

49.18%

Altro

1.64%

 

100%

 

Gli addetti nel 2008 sono:

Industria alimentare

100.159

Artigianato alimentare

18.981

 

In particolare siamo andati a vedere l’evoluzione del patrimonio suinicolo confrontandolo con l’attività industriale di trasformazione dei prodotti derivati dal suino.

Riteniamo che in questo comparto vi sia la infausta possibilità di realizzazione del 2° scenario (mercati globale – concorrenza spietata) stante la non presenza di aggregazioni di filiera.

I nostri interessi sono legati alla filiera (industria – territorio – consorzio) e quindi contrari al 2° scenario.

 

Patrimonio suinicolo in Lombardia

Buone notizie.

Nel 1990 i capi erano 2.879 (milioni). L’evoluzione negli anni e nella nelle province è stata:

 

 

2000

2005

2008

BG

256

270

388

BS

1012

1150

1261

CO

1

3

2

CR

670

895

1032

LC

5

4

2

LO

421

498

491

MN

1106

1256

1210

MI

112

98

103

PV

252

260

328

SO

2

6

2

VA

3

1

1

 

3843

4715

4820

Siamo vicini ai 5 milioni di capi suini. In particolare il Triangolo Rosa è formato da BS-CR-MN.

 

Gli scambi import/export denotano il punto di frattura.

Scambi con estero 2008:

 

 

 

Import

Export

Animali vivi

 

246

23

   di cui   bovini

218.9

2

 

Prodotti della pesca

 

100

9

Carni fresche e congelate:

 

 

 

di  cui  equini

690

 

 

bovini

741

 

 

suini

292

 

 

ovini

38

 

 

avicoli

15

 

 

frattaglie

55

 

 

Carni preparate

 

85

235

di  cui  bovini

386

 

 

Pesce lavorato e conservato

 

587

97

Prodotti lattiero caseari

 

1254

769

Mangimi

 

432

101

di  cui  pannelli, farine

214.3

 

 

pet feed

217.6

 

 

Totale Agroalimentare

 

8449

4519

Totale Bilancia Commerciale

 

121.302

103.727

 

 

Da dove importa la Lombardia:

Francia

19%

Spagna

9%

Olanda

8.5%

Germania

4.6%

Ungheria

3.6%

Grecia

3.4%

 

Dove esporta la Lombardia:

Svizzera

19%

Grecia

14.4%

Francia

13%

Germania

12.6%

Romania

4.5%

Slovenia

3.9%

 

I Paesi che esportano la carne da noi hanno tutto l’interesse che l’allevamento nazionale NON aumenti. La capacità di aver fatto filiera nei polli ha portato l’industria nazionale al 100% di produzione di quanto consumiamo. Se succedesse nei suini dove metterebbero la carne in eccedenza? Questi surplus di produzione possono essere venduti sul nostro mercato con la logica del mantenimento della posizione e non con la logica del prezzo? Questo è 2° scenario che consideriamo infausto. E se i nostri interessi sono contrari dobbiamo avere l’atteggiamento e comportamento consono alla difese, ovunque e dovunque, dei nostri interessi.

 

Considerazione:

Il focus è sul suino. L’industria di trasformazione vende sul mercato italiano con marchi legati alle specialità del territorio ed esporta utilizzando alla grande l’immagine del Paese ed il tricolore.

Ma l’industria di trasformazione NON vuole il legame con il territorio, pretende solo il legame virtuale.

E ciò viene giudicato un fatto che può comportare delle implicazioni negative.

Gli allevamenti di suini che impiegano, a qualunque titolo, tecnologia che provenga dai Paesi da cui importiamo, spalancano la porta all’importazione delle derrate di carne.

 

Il nostro interesse è che sempre più suini vengano allevati sul e nel territorio nazionale.

A noi spiace quando l’allevatore recrimina nei confronti delle importazioni di carne dell’industria e nel contempo utilizza tecnologia di Paesi che esportano carne in Italia.

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